ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO: E' DIRITTO FONDAMWNTALE MA NON VANNO AMMESSI GLI ABUSI
Tanto premesso, il Collegio rileva che, pur costituendo l’accesso civico generalizzato uno strumento di tutela dei diritti fondamentali dei cittadini e di promozione della loro partecipazione all’attività amministrativa, nondimeno esso non può essere impiegato in maniera distorta e divenire causa di intralcio all’azione della pubblica amministrazione.
Al riguardo, il Consiglio di Stato, riunito nella sua più autorevole composizione, ha individuato nel divieto di abuso del diritto un limite invalicabile rispetto al possibile utilizzo distorto dell’accesso civico generalizzato (cfr. Consiglio di Stato, adunanza Plenaria n.10/2020).
Secondo la definizione più accreditata anche in giurisprudenza (a partire dalla sentenza della Cassazione 20106/2009) l’abuso del diritto è configurabile allorché il titolare di un diritto (anche fondamentale come ricorre nel caso in esame) pur in assenza di divieti formali, lo eserciti al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali il diritto è stato attribuito dall’ordinamento e/o con modalità non necessarie e irrispettose del dovere di correttezza e buona fede causando uno sproporzionato e ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, al fine di conseguire risultati diversi e ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti.
L’analisi dei precedenti giurisprudenziali conferma le conclusioni esposte.
Come anticipato, l’adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n.10/2020, proprio con riferimento ai limiti dell’accesso civico generalizzato, ha avuto modo di osservare che “l’accesso, finalizzato a garantire, con il diritto all’informazione, il buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), non può finire per intralciare proprio il funzionamento della stessa, sicché il suo esercizio deve rispettare il canone della buona fede e il divieto di abuso del diritto, in nome, anzitutto, di un fondamentale principio solidaristico (art. 2 Cost.).
Il diritto di accesso civico generalizzato, se ha un’impronta essenzialmente personalistica, quale esercizio di un diritto fondamentale, conserva una connotazione solidaristica, nel senso che l’apertura della pubblica amministrazione alla conoscenza collettiva è funzionale alla disponibilità di dati di affidabile provenienza pubblica per informare correttamente i cittadini ed evitare il propagarsi di pseudoconoscenze e pseudocoscienze a livello diffuso, in modo – come è stato efficacemente detto – da «contribuire a salvare la democrazia dai suoi demoni, fungendo da antidoto alla tendenza […] a manipolare i dati di realtà».
Sarà così possibile e doveroso evitare e respingere: richieste manifestamente onerose o sproporzionate e, cioè, tali da comportare un carico irragionevole di lavoro idoneo a interferire con il buon andamento della pubblica amministrazione; richieste massive uniche (v., sul punto, Circolare FOIA n. 2/2017, par. 7, lett. d; Cons. St., sez. VI, 13 agosto 2019, n. 5702), contenenti un numero cospicuo di dati o di documenti, o richieste massive plurime, che pervengono in un arco temporale limitato e da parte dello stesso richiedente o da parte di più richiedenti ma comunque riconducibili ad uno stesso centro di interessi; richieste vessatorie o pretestuose, dettate dal solo intento emulativo, da valutarsi ovviamente in base a parametri oggettivi”.
Di recente la Sezione ha altresì precisato che “seguendo le coordinate teoriche delineate nel tempo dalla giurisprudenza, l’abuso del diritto costituisce una particolare declinazione del principio di buona fede, il quale, a sua volta, è attuazione del principio fondamentale di solidarietà politica, economica e sociale enunciato dall’art. 2 Cost. (Cons. Stato, Sez. IV, 05 settembre 2024, n. 7435; Sez. IV, 20 giugno 2024, n. 5514; Cass. civ., Sez. III, ord., 07 giugno 2024, n. 16024; Sez. III 14 giugno 2021 n. 16743), che impone a ciascun consociato, nel rispetto di questo dovere di solidarietà, di non “piegare” l’ordinamento al perseguimento di pretese che, considerate oggettivamente (cioè secondo una valutazione socialmente tipica di tipo oggettivo e senza cioè tenere conto dei motivi e dei nessi psichici che orientano chi agisce), in relazione alla vicenda in cui esse si esprimono, risultino sproporzionate, irragionevoli, emulative, prevaricatrici o ingiuste.
L’istituto sortisce dunque l’effetto di correggere (o, in alcuni casi di impedire) l’applicazione dello strictum jus, temperando il principio secondo cui qui iure suo utitur neminem laedit ed evitando che possano trovare giuridico riconoscimento (ad es., Cass. civ., Sez. unite, 23 aprile 2020 n. 8094, §. 9.6., in materia di inesigibilità del credito nel rapporto obbligatorio), nel processo o al di fuori di esso, pretese assiologicamente non giustificate, azionate o esercitate facendosi scudo di una qualche norma giuridica, di cui colui che agisce pretende di fare applicazione rigidamente, basandosi esclusivamente sull’interpretazione letterale della disposizione e senza rapportarla agli altri limiti (o alle altre situazioni di vantaggio) emergenti dall’ordinamento e, anzi, agendo in (aperto o celato) contrasto con gli ulteriori principi di ordine sistematico da questo emergenti e, in particolare, con il richiamato principio inderogabile di solidarietà” (sent. 25 novembre 2024, n. 9470).
Su tali basi, il Collegio ritiene che, in consonanza con quanto rilevato nella sentenza impugnata, l’istanza d’accesso civico in questione debba essere qualificata come “massiva”, posto che il contenuto dell’istanza di accesso formulata, la quale associa alla quantità dei documenti richiesti la totale assenza, al di là della loro partizione in macro-categoria, d’ogni specificità anche sotto il profilo della delimitazione temporale, si traduce, in ultima analisi, in un controllo generalizzato della intera vita sociale della società in house.
Con un secondo mezzo di gravame la parte appellante deduce: “violazione degli artt. 2, 3, 116 e 39 cpa, anche in rapporto agli artt. 112 e 276 cpc e all’art. 118 disp. att. cpc; violazione degli artt. 1, 3, 6, 10, 22 e 24 l. 241/1990, 1, 2, 2 bis, 3, 5 e 5-bis dlgs 33/2013, 1 l. 190/2012, 3, 17 e 31 dlgs 201/2022, 4, 5, 16 e 22 dlgs 175/2016, anche in relazione agli artt. 24 e 97 cost.; 3 e 9 dpr 11 Studio Legale Invernizzi 62/2013; violazione del principio di trasparenza, imparzialità e buon andamento; travisamento dei presupposti di fatto e diritto; difetto di motivazione; sviamento”.
La società appellante lamenta, con il motivo in esame, l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha rilevato la carenza di un interesse concreto e attuale della ricorrente all’accesso ex Legge n. 241/1990.
Il motivo non è fondato.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla parte appellante, la sentenza di primo grado ha fondato il respingimento della istanza di accesso documentale, proposta ai sensi dell’art. 24, della legge n. 241 del 1990, principalmente in base all’argomento per cui la richiesta di accesso è incorsa nel divieto di cui all’art. 24 comma 3, della legge n. 241 del 1990, che non consente l’esercizio del diritto di accesso quando esso è finalizzato ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni.
Tale conclusione è in linea con la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ritiene inammissibili istanze generiche di accesso del tipo di quella formulata dalla odierna società appellante, osservandosi che “Il diniego di accesso agli atti può essere legittimamente opposto ogni qualvolta l'istanza risulti generica, sia sotto il profilo dei documenti richiesti, sia sotto quello del labile interesse all'ostensione; l'accesso agli atti, infatti, deve avere ad oggetto una specifica documentazione in possesso del detentore dei documenti, indicata in modo sufficientemente preciso e circoscritto e non può riguardare un complesso non individuato di atti di cui non si conosce neppure con certezza la consistenza e il contenuto, e soprattutto la pertinenza rispetto alla condizione della richiedente, assumendo altrimenti l'istanza un sostanziale carattere di natura meramente esplorativa, inammissibile ex art. 24, comma 3, l. n. 241 del 1990.“ (Consiglio di Stato , Sez. III , n. 1139/2024).
Muovendo da tale principale ragione, la decisione impugnata ha poi, con un secondo argomento, rilevato che “con riguardo all’accesso ai sensi della legge n. 241 del 1990, che la stessa ricorrente ammette che allo stato non vi è alcun atto concernente il temuto allargamento della gestione “in house”, per cui sotto tale profilo non è dato comprendere quale interesse “concreto ed attuale” (ex art. 22 comma 1 lettera “b” della legge n. 241 del 1990) la società esponente ponga alla base della sua istanza di ostensione”.
Argomenti:
Testo integrale
Per consultare il testo integrale devi essere un utente abbonato. Per maggiori informazioni clicca qui