Giurisprudenza e Prassi

RISOLUZIONE DEL CONTRATTO - EFFETTI

CORTE CASSAZIONE SENTENZA 2024

REPUBBLICA ITALIANA


IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE


SEZIONE PRIMA CIVILE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:


Dott. SCOTTI Umberto Luigi - Presidente


Dott. ABETE Luigi - Consigliere


Dott. D'ORAZIO Luigi - Consigliere-Rel.


Dott. RUSSO Rita Elvira Anna - Consigliere


Dott. REGGIANI Eleonora - Consigliere


ha pronunciato la seguente


ORDINANZA


sul ricorso n. 36334/2018 r.g. proposto da:


GECOP Spa (Generale Costruzioni e Progettazioni Spa), in persona del legale rappresentante p.t., dott. Ferranti Andrea, elettivamente domiciliata in Roma, Via Mirandola, n. 35, rappresentata e difesa per procura speciale in calce al ricorso dall'Avvocato Gargiani Luca e dall'Avv. Lucia Gargiani Carlotta.


- ricorrente -


contro


Azienda USL Roma/F, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, dott. Quintavalle Giuseppe, elettivamente domiciliata in Tarquinia, Via Le Rose n. 9, presso lo studio dell'Avv. Guerri Anna Maria, che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale in calce al controricorso.


- controricorrente-ricorrente incidentale -


avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 3558/2018, depositata in data 25 maggio 2018;


udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28 marzo 2024 dal Consigliere dott. D'Orazio Luigi;


Svolgimento del processo

1. L'Azienda Usl Roma, a seguito di procedura concorsuale, con delibera del 30 settembre 2004 affidava alla GECOP (Generale Costruzioni e Progettazioni) Spa l'esecuzione di lavori di ristrutturazione del Distretto sanitario per il corrispettivo di Euro 212.008,79, oltre Iva.

I lavori venivano sospesi per due volte: la prima il 20 gennaio 2005, giustificata dalla "indisponibilità dei luoghi", protrattasi fino al 19 febbraio 2007; la seconda relativa all'atto di sottomissione, sottoscritto il 19 febbraio 2007, prolungatasi per ben 7 mesi, i cui lavori non erano stati mai iniziati per mancanza dell'approvazione della perizia di variante da parte degli organi superiori.

Pertanto, la GECOP citava in giudizio l'Azienda Usl chiedendo accertarsi il grave inadempimento posto in essere dalla stessa, con la pronuncia di risoluzione del contratto di appalto n. 419, dell'atto di sottomissione del 19 febbraio 2007 e dell'atto aggiuntivo del 21 marzo 2007, per grave inadempimento dell'Azienda Usl, con condanna della stessa al risarcimento dei danni.

In particolare, la società deduceva che le due sospensioni non erano state giustificate né da cause di forza maggiore e/o da circostanze speciali né, tantomeno, da ragioni di pubblico interesse o necessità, dovendosi reputare le stesse illegittime ai sensi dell'art. 25 del decreto ministeriale n. 145 del 2000.

Quanto ai danni l'attrice chiedeva il risarcimento della somma di Euro 147.366,72 così specificata: a) euro 93.476,82 per spese generali "improduttivamente sostenute durante il periodo del vincolo contrattuale"; b) Euro 3502,66 per "intervenuta lesione dell'utile"; c) Euro 26.000,00 "per mancato ammortamento attrezzature impiegate per l'appalto"; d) Euro 21.909,33 "per il costo del personale improduttivo addetto alla direzione e sicurezza del cantiere, valutato nella misura ridotta del 20% tenuto conto del possibile impiego sostitutivo in altri cantieri"; e) Euro 2447,91 per premi per polizze assicurative.

2. Il tribunale di Roma reputava che entrambe le sospensioni dei lavori disposte dall'amministrazione erano illegittime, sicché doveva essere riconosciuta la domanda risarcitoria ex art. 25 del decreto ministeriale n. 145 del 2000, unitamente alla risoluzione del contratto d'appalto. La società, pur avendo provveduto "ad installare il cantiere e ad organizzare la relativa struttura per dar corso i lavori alla data della consegna", non era stata messa in condizioni di eseguire lavoro.

Gli inadempimenti della committente rivestivano il carattere della gravità ai sensi dell'art. 1445 c.c., sì da fondare la domanda di risoluzione del contratto d'appalto del 20 dicembre 2004, del successivo atto di sottomissione (19 febbraio 2007) e dell'atto aggiuntivo (21 marzo 2007).

Quanto alla quantificazione dei danni, era corretta l'applicazione dell'art. 25 del decreto ministeriale n. 145 del 2000, con la determinazione della somma di Euro 147.366,72 richiesta dall'attrice.

3. Proponeva appello l'Azienda Usl chiedendo dichiararsi la legittimità delle sospensioni dei lavori e la insussistenza dei presupposti per la risoluzione del contratto, instando, comunque, per il rigetto della domanda di risarcimento.

Sosteneva l'appellante che il tribunale, dopo aver accertato l'intervenuta risoluzione del contratto di appalto, aveva però erroneamente liquidato il danno spettante all'appaltatore nel caso di sospensione illegittima dei lavori, liquidando in tal modo una serie di voci di danno prive di prova, tenendo conto della prova testimoniale espletata.

4. La Corte d'appello di Roma con sentenza n. 3558 del 2018, pubblicata il 25 maggio 2018, in parziale accoglimento dell'appello della Usl, riduceva l'importo del risarcimento ad Euro 24.520,00, oltre accessori.

Infatti, la Corte territoriale evidenziava che i danni per illegittima sospensione dei lavori spettavano esclusivamente nell'ipotesi in cui si fosse verificato il completamento dell'opera, ma non nell'ipotesi di intervenuta risoluzione del contratto, in quanto in tal caso, una volta venuto meno il titolo giustificativo delle rispettive attribuzioni patrimoniali, non poteva liquidarsi il danno come se il contratto, a seguito delle sospensioni, fosse proseguito.

Pertanto, il tribunale non poteva liquidare il danno applicando l'art. 25 del decreto ministeriale n. 145 del 2000, il quale prevede la determinazione del danno nel caso di sospensione dei lavori, ma in un appalto non oggetto di risoluzione.

I danni potevano, invece, essere risarciti, esclusivamente in presenza della prova della sussistenza degli stessi. Non essendo stata realizzata alcuna opera, neppure in parte, non aspettava alcun compenso a tale titolo.

Quanto, invece, al "mancato utile" per la società, lo stesso poteva essere liquidato in via equitativa in una frazione del prezzo dell'originario appalto, reputando equo il danno nella misura del 10%, e così in Euro 21.200,00, in applicazione dei criteri di cui all'art. 345 della L. n. 2248 del 1865.

5. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la GECOP Spa, depositando anche memoria scritta.

6. Resisteva con controricorso la Azienda Usl RM/F, proponendo anche ricorso incidentale.

7. La GECOP Spa resisteva con controricorso al ricorso incidentale.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di impugnazione principale la società ricorrente deduce la "violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all'art. 24 e all'art. 25 del D.M. 145 del 2000 e art. 1458 c.c., con riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.".

In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che, in caso di sospensione dei lavori, essa si inserisce nella esecuzione di un contratto efficace, sino al completamento dell'opera, sicché l'appaltatore deve essere tenuto indenne dai maggiori costi, rispetto al prezzo pattuito, che ha dovuto sostenere per conservare l'organizzazione imprenditoriale durante la sospensione. Ha però aggiunto che, nel caso di risoluzione del contratto, viene meno il titolo giustificativo delle rispettive attribuzioni patrimoniali e non può liquidarsi il danno come se il contratto, a seguito delle sospensioni, fosse proseguito, reputando non applicabile, dunque, l'art. 25 del D.M. n. 145 del 2000. Il danno, dunque, doveva essere provato dall'appaltatore.

L'errore in cui sarebbe incorsa la Corte d'appello, dovrebbe rinvenirsi nell'avere escluso l'applicazione al contratto d'appalto dell'art. 1458 c.c., nella parte in cui dispone che la risoluzione non ha effetto retroattivo nel caso "di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo i quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite".

In realtà, il contratto d'appalto di opera pubblica non può essere riconducibile tra i contratti ad "esecuzione istantanea", come nel caso in cui l'appalto "abbia per oggetto la realizzazione di un "opus" determinato, (...) per cui la prestazione non sarebbe frazionabile e si realizzerebbe" con un unico atto.

Al contrario, gli appalti pubblici presentano una disciplina estremamente articolata e complessa, che attribuisce un preciso valore giuridico alle prestazioni parziali, rese dall'appaltatore, tanto che il diritto alla percezione del corrispettivo si fonda sul meccanismo degli stati di avanzamento dei lavori (SAL).

Avendo carattere "di durata" il contratto d'appalto deve essere attratto nella disciplina di cui all'art. 1458 c.c., propria dei contratti "ad esecuzione continuata o periodica", e non in quella dei contratti ad esecuzione istantanea, trovando applicazione l'art. 25 del D.M. n. 145 del 2000.

2. Con il secondo motivo di impugnazione principale la ricorrente lamenta la "violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all'art. 1458 c.c., 1226 e 2056 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.".

Precisa la società ricorrente che, anche laddove si volesse seguire l'orientamento richiamato dalla Corte d'appello, la pronuncia sarebbe ugualmente erronea "in merito al mancato riconoscimento delle ulteriori voci di danno in favore della GECOP".

Ciò in quanto nel contratto d'appalto erano contenute clausole penali di cui all'art. 1382 c.c., richiamate dall'art. 25 del D.M. n. 145 del 2000.

La motivazione della sentenza d'appello sarebbe contraddittoria e illogica; infatti, dopo aver premesso che le voci di danno dedotte in base all'art. 25 del D.M. n. 145 del 2000 non potevano essere accolte, essendo venuto meno il vincolo contrattuale, tuttavia, subito dopo osservava che i danni dovevano essere provati dall'appaltatore, ma, nella specie, "non essendo stato possibile per l'appaltatore iscrivere alcuna riserva, occorre avere riferimento alle prove del danno risultanti dagli atti del giudizio".

In realtà, la penale prevista dall'art. 1382 c.c. aveva come unico scopo quello di determinare il quantum massimo di risarcimento, e non quello di dimostrare i danni cagionati dall'appaltante nel caso di sospensioni illegittime.

Pertanto, per la Corte d'appello, la risoluzione del contratto, determinando la cessazione del rapporto, provocherebbe l'estinzione delle obbligazioni che da esso derivavano a carico di entrambe le parti con effetto retroattivo, ma "al contempo afferma e riconosce valenza probatoria alle riserve", che fanno parte proprio del contratto.

In caso di risoluzione del contratto di opere pubbliche per inadempimento del committente, questi, non potendo restituire l'opera realizzata dall'appaltatore, è obbligato a corrispondere il valore venale del bene, con riferimento al momento in cui la risoluzione si è verificata.

Pertanto, sarebbe errata l'affermazione della Corte d'appello per cui solo nel caso di sospensione dei lavori, che si inserisca però nell'esecuzione di un contratto efficace, l'appaltatore debba essere ritenuto indenne di maggiori costi sopportati.

Al contrario, il diritto al risarcimento dei danni subiti dall'appaltatore concerne anche "il ristoro degli oneri e dei danni relativi alle riserve, oltre al saldo dei lavori eseguiti".


Allo stesso modo, sarebbero dovute anche le spese generali, in caso di illegittima sospensione dei lavori, da liquidarsi in misura percentuale sul prezzo dell'appalto.

La Corte d'appello, insomma, avrebbe erroneamente "negato all'impresa il diritto di vedere ripristinata la situazione patrimoniale originaria".

In presenza di un "accertato sconvolgimento dei tempi contrattuali dovuto a fatti imputabili alla committente", non occorrerebbe "una prova particolare del danno subito dall'impresa perché, in via di presunzione, deve ritenersi verificato un aumento delle spese generali, essendo i due fenomeni strettamente connessi".

La Corte d'appello, una volta che l'impresa aveva dimostrato la tipologia delle spese sostenute oltre che l'esistenza di una organizzazione aziendale, individuata nella realizzazione del cantiere, avrebbe dovuto liquidare in via equitativa i danni.

Del resto, quanto al mancato utile, la stessa Corte territoriale aveva proceduto ad una liquidazione in via equitativa, nella misura del 10% del prezzo dell'originario appalto.

3. I motivi primo e secondo, che vanno trattati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono infondati.

Costituisce circostanza pacifica quella per cui il contratto di appalto stipulato tra le parti è stato dichiarato risolto con sentenza del tribunale di Roma per grave inadempimento dell'Azienda Usl ex art. 1453 c.c.

3.1. Per costante orientamento di legittimità il contratto di appalto non è ad efficacia istantanea e neppure configura un contratto a prestazioni continuative o periodiche, ma trattasi di un contratto ad esecuzione "non continuata", ma "prolungata" (Cass., sez. 2, 9 febbraio 2022, n. 4225), con conseguente efficacia retroattiva della risoluzione (Cass., sez. 1, 19 febbraio 1968, n. 574).

L'art. 1458 c.c. prevede che "la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo i quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite".

Ad avviso della società ricorrente, dunque, il contratto d'appalto - che non è contratto ad esecuzione istantanea - dovrebbe rientrare proprio tra i "contratti ad esecuzione continuata o periodica", con il corollario che "l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite", e, dunque, con la conseguenza specifica che troverebbero applicazione gli articoli 24 e 25 del D.M. n. 145 del 2000, in presenza di sospensioni dei lavori illegittime, come pure le disposizioni in ordine alla debenza delle "spese generali di cantiere", di cui all'art. 5 del D.M. n. 145 del 2000.

4. Trattandosi, allora, di contratto ad efficacia "prolungata", l'effetto restitutorio opera a pieno regime, facendo "saltare" il vincolo contrattuale.

Infatti, si è affermato che nei contratti a prestazioni corrispettive, la retroattività (art. 1458, primo comma, c.c.) della pronuncia costitutiva di risoluzione per inadempimento, collegata al venir meno della causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite, comporta l'insorgenza dell'obbligo di restituzione della prestazione ricevuta a carico di ciascun contraente ed indipendentemente dalle inadempienze a lui eventualmente imputabili e, qualora questo non sia possibile, del suo equivalente (Cass., sez. 2, 21 giugno 2013, n. 15705; da ultimo Cass., sez. 2, 17 luglio 2023, n. 20460).

La sentenza che pronuncia la risoluzione del contratto per inadempimento produce, infatti, un effetto liberatorio ex nunc, rispetto alle prestazioni da eseguire, ed un effetto recuperatorio ex tunc, rispetto alle prestazioni già eseguite (Cass., sez. 2, 3 ottobre 2018, n. 27640).

Con la risoluzione del contratto, in forza della operatività retroattiva della stessa ex art. 1458 c.c., si verifica, quindi, per ciascuno dei contraenti ed indipendentemente dall'imputabilità dell'inadempienza, che rileva ad altri fini, una totale "restitutio in integrum".

Pertanto, tutti gli effetti del contratto vengono meno e con esso tutti i diritti che ne sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi. L'obbligazione restitutoria non ha, dunque, natura risarcitoria, derivando esclusivamente dal venire meno, per effetto della pronuncia costitutiva di risoluzione, della causa delle reciproche obbligazioni (Cass., n. 15705 del 2013, cit.).

Nei contratti con prestazioni corrispettive, come quello di appalto, deve essere accolta la richiesta di restituzione relativa al valore della prestazione già eseguita e che non sia stata restituita né offerta in restituzione e della quale il committente si giova in quanto il diritto origina, in caso di risoluzione, dall'obbligo restitutorio che scaturisce, appunto, dalla risoluzione (Cass., n. 15705 del 2013).

Nel caso in cui gli effetti restitutori non possano essere disposti in forma specifica, il giudice deve necessariamente ordinarli per equivalente.

Pertanto, in tema di risoluzione del contratto di appalto, qualora la risoluzione consegua all'inadempimento del committente e non sia configurabile la restituzione in natura all'impresa appaltatrice della costruzione, parzialmente eseguita, il contenuto dell'obbligo restitutorio a carico della committente va determinato con riferimento al momento della pronuncia di risoluzione e in relazione all'ammontare del corrispettivo originariamente pattuito (Cass., sez. 1, 24 maggio 2007, n. 12162).

4.1. Solo in caso di appalti di servizi e aventi ad oggetto attività di manutenzione periodica, le loro caratteristiche di durata, impediscono la ripetibilità delle prestazioni già eseguite (Cass., sez. 1, 9 febbraio 2022, n. 4225).

Si tratta, infatti, di rapporti in cui l'esecuzione ha luogo per coppie di prestazioni da eseguirsi contestualmente con funzione corrispettiva, per cui rispetto alle reciproche prestazioni eseguite il rapporto deve intendersi esaurito senza alcun effetto restitutorio, in caso di risoluzione (Cass., sez. 1, n. 4255 del 2022).

4.2. I medesimi principi sono stati enunciati anche in caso di risoluzione dell'appalto pubblico (Cass., sez. 1, 12 luglio 2022, n. 22065; Cass., sez. 1, 20 febbraio 2015, n. 3455; Cass., sez. 1, 5 marzo 2008, n. 5951).

Una volta venuto meno il contratto, a seguito della risoluzione giudiziale, non ci si può più occupare della legittimità delle sospensioni e neppure della tempestività e della consistenza delle riserve, proprio perché il vincolo negoziale non esiste più (Cass., n. 3455 del 2015, cit.).

Si è, dunque, affermato che laddove una volta pronunciata la risoluzione del contratto ex articoli 1453 o 1456 c.c., in forza della operatività retroattiva di essa, stabilita dall'art. 1458 c.c., si verifica per ciascuno dei contraenti, ed indipendentemente dall'imputabilità dell'inadempienza, una totale "restitutio in integrum", venendo meno tutti gli effetti del negozio e, con essi, tutti i diritti che ne sarebbero derivati e che, appunto, si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi.

5. Strettamente connessa alla questione degli effetti retroattivi della risoluzione del contratto d'appalto, è la parallela questione in ordine alla applicabilità, in caso di intervenuta risoluzione giudiziale, degli articoli 24 e 25 del D.M. n. 145 del 2000, che disciplinano le sospensioni dei lavori.

5.1. L'art. 24 del D.M. n. 145 del 2000 (regolamento recante il capitolato generale d'appalto dei lavori pubblici, ai sensi dell'art. 3, comma 5, della L. 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni), stabilisce, al primo comma, che "è ammessa la sospensione dei lavori, ordinata dal direttore dei lavori, ai sensi dell'art. 133, comma 1, del regolamento nei casi di avverse condizioni climatiche, di forza maggiore, o di altre circostanze speciali che impediscono la esecuzione o la realizzazione a regola d'arte dei lavori stessi".

Al comma 6 dell'art. 24, si prevede che "nei casi previsti dall'art. 133, comma 2, del regolamento, il responsabile del procedimento determina il momento in cui sono venute meno le ragioni di pubblico interesse o di necessità che lo hanno indotto a sospendere i lavori. Qualora la sospensione, o le sospensioni se più di una, durino per un periodo di tempo superiore ad un quarto della durata complessiva prevista per l'esecuzione dei lavori stessi, o comunque quando superino 6 mesi complessivi, l'appaltatore può chiedere lo scioglimento del contratto senza indennità".

L'art. 25 del medesimo D.M. n. 145 del 2000 si occupa delle sospensioni illegittime, stabilendo che "le sospensioni totali o parziali dei lavori disposte dalla stazione appaltante per cause diverse da quelle stabilite dall'art. 24 sono considerate illegittime e danno diritto al appaltatore ad ottenere il riconoscimento dei danni prodotti".

Al comma 2 dell'art. 25 del D.M. n. 145 del 2000 si precisa che "ai sensi dell'art. 1382 del codice civile, il danno derivante da sospensione illegittimamente disposta è quantificato secondo i seguenti criteri: a) detratte dal prezzo globale nella misura intera, le spese generali infruttifere sono determinate nella misura pari alla metà della percentuale minima prevista dall'art. 34, comma 2, lett. c) del regolamento, rapportata alla durata dell'illegittima sospensione; b) la lesione dell'utile è riconosciuta coincidente con la ritardata percezione dell'utile di impresa, nella misura pari agli interessi moratori come fissati dall'art. 30, comma 4, computati sulla percentuale prevista dall'art. 34, comma 2, lett. d) del regolamento, rapportata alla durata dell'illegittima sospensione; c) il mancato ammortamento e le retribuzioni inutilmente corrisposte sono riferiti rispettivamente i macchinari esistenti in cantiere e alla consistenza della manodopera accertati dal direttore dei lavori ai sensi dell'art. 133, comma 5, del regolamento; d) la determinazione dell'ammortamento avviene sulla base dei coefficienti annui fissati dalle vigenti norme fiscali".

Dagli atti risulta che le clausole penali di cui all'art. 25 del D.M. n. 145 del 2000 sono state richiamate nel contratto di appalto (cfr. pagina 19 del ricorso per cassazione "La clausola penale di cui all'art. 1382 c.c. prevista e richiamata dall'art. 25 DM 145/2000"; pagina 20 "la penale prevista dalla previsione di cui all'art. 1382 cc ha come unico scopo quello di pattuire a tutela della Committente preventivamente il quantum massimo del risarcimento").

6. Questa Corte, però, ha affermato che gli articoli 24 e 25 del D.M. n. 145 del 2000, che disciplinano le sospensioni, rispettivamente legittime e illegittime, trovano applicazione soltanto nel caso in cui l'appalto sia stato ultimato ed eseguito, ma non nell'ipotesi di risoluzione del contratto (Cass., sez. 1, 22 dicembre 2011, n. 28429), la cui domanda è ammissibile fino al collaudo delle opere (Cass., n. 22065 del 2022, cit.).

Questa Corte ha ritenuto che le spese generali per l'esecuzione dell'appalto, comprendenti le spese generali del cantiere e quelle generali di azienda, non sono disciplinate dall'art. 20 del D.M. 29 maggio 1895, che regola invece la formazione dei prezzi unitari per ogni tipologia di lavoro e le relative componenti per la determinazione del costo dell'opera di cui tener conto nel progetto e nell'eventuale bando di gara (Cass., 22 dicembre 2011, n. 28429), ma dall'art. 16 del D.P.R. n. 1063 del 1962 e, successivamente, dall'art. 5 del D.M. n. 145 del 2000).

Tale ultima norma, pone le spese generali a carico dell'appaltatore, anche perché già computate nel prezzo dell'opera.

L'art. 20 del D.M. 29 maggio 1895 (analisi dei prezzi unitari) prevede che "si aggiunge poi generalmente una percentuale variabile dal 13 al 15% (...) a seconda della natura della importanza dei lavori, ai prezzi unitari della manodopera, dei mezzi di trasporto, dei materiali e di quanto altro occorre la formazione del costo delle singole categorie di opere".

L'art. 16 del D.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 (Approvazione del capitolato generale d'appalto per le opere di competenza del ministero dei lavori pubblici), sancisce (cantieri, attrezzi, spese ed obblighi generali a carico dell'appaltatore) che "salve le eccezioni prevedute dai capitolati speciali, si intendono comprese nel prezzo dei lavori e perciò sono a carico dell'appaltatore: le spese per formare e mantenere i cantieri ed illuminarli; le spese per trasporto di qualsiasi materiale o mezzo d'opera; le spese per attrezzi, ponti e quanto altro occorra all'esecuzione piena e perfetta dei lavori. Le spese per rilievi, tracciati, verifiche, esplorazioni, capisaldi e simili che possono occorrere dal giorno in cui comincia la consegna fino al collaudo compiuto (...)".


L'art. 5 del decreto 19 aprile 2000, n. 145, con riferimento alle spese generali, prevede che "fatte salve le eventuali ulteriori prescrizioni del capitolato speciale d'appalto, si intendono comprese nel prezzo dei lavori e perciò a carico dell'appaltatore: a) le spese per l'impianto, la manutenzione e l'illuminazione dei cantieri, con esclusione di quelle relative alla sicurezza nei cantieri stessi; b) le spese per trasporto di qualsiasi materiale o mezzo d'opera; c) le spese per attrezzi e opere provvisionali e per quanto altro occorre alla esecuzione piena e perfetta dei lavori; (...) h) le spese per la custodia e la buona conservazione delle opere fino al collaudo provvisorio o all'emissione del certificato di regolare esecuzione (...)".

Pertanto, tali spese sono, in linea di principio, a carico dell'appaltatore, ma, vi è l'obbligo della stazione appaltante di rimborsare i maggiori oneri in favore dell'appaltatore, ove con il proprio comportamento abbia determinato un aggravio delle spese generali del cantiere. Ciò avviene proprio in caso di illegittima sospensione dei lavori in cui se ne ammette la liquidazione in misura percentuale sul prezzo dell'appalto, salva la possibile riduzione in relazione al decorso del tempo (Cass. n. 28429 del 2011).

Nel caso, invece, di risoluzione contrattuale, si verifica una totale "restitutio in integrum" e, quindi, il venir meno di tutti gli effetti del contratto. Una volta eliminato il rapporto negoziale non può più farsi riferimento alle riserve dell'impresa formulate nel corso della sua esecuzione, e neppure può opporsi più alcuna questione con riferimento alla sospensione dei lavori.

Sia le riserve che la sospensione, infatti, presuppongono un contratto di appalto valido ed operante, data la funzione peculiare di far valere verso l'amministrazione committente diritti o pretese di maggiori compensi per la sua avvenuta esecuzione, rispetto al prezzo contrattuale originario (Cass., 22 dicembre 2011, n. 28429).

Occorre, dunque, fornire la prova dell'esistenza e della quantità delle "spese generali del cantiere", proprio come ritenuto dalla Corte d'appello.

7. Inoltre, deve aggiungersi che, in tema di appalto di opere pubbliche, la riserva, attenendo ad una pretesa economica di matrice contrattuale, presuppone l'esistenza di un contratto valido di cui si chiede l'esecuzione, mentre, ogni qualvolta si faccia questione di invalidità del contratto e dei modi della sua estinzione, come nel caso della risoluzione per inadempimento, le pretese derivanti dall'inadempimento della stazione appaltante non vanno valutate in relazione all'istituto delle riserve (si richiamano anche Cass., n. 22036 del 2014; Cass. n. 19531 del 2014; Cass. n. 1217 del 2000; Cass., n. 1728 del 1982), ma seguono i principi di cui agli artt. 1453 e 1458 c.c. (Cass., sez. 1, 3 novembre 2016, n. 22275).

Pertanto, non si ravvisa alcuna contraddizione nella motivazione della sentenza della Corte d'appello, che, in definitiva, ha reputato, a seguito dell'intervenuta risoluzione giudiziale del contratto di appalto, che la società appaltatrice aveva l'obbligo di dimostrare l'esistenza dei danni subiti, tra i quali quelli relativi alle "spese generali del cantiere".


Va corretta la motivazione esclusivamente nel punto in cui la Corte territoriale ha affermato che "nella specie, non essendo stato possibile per l'appaltatore iscrivere alcuna riserva, occorre aver riferimento alle prove del danno risultanti dagli atti del giudizio", in quanto, in realtà, una volta risolto giudizialmente il contratto, non sussisteva più alcun vincolo negoziale tra le parti, ma solo obblighi restitutori, perdendo efficacia anche le eventuali riserve iscritte dall'appaltatore per contestazioni sopraggiunte nell'esecuzione dei lavori.

7.1. Deve aggiungersi che la giurisprudenza sopra richiamata (Cass., n. 28429 del 2011) non è in contrasto con altri precedenti giurisprudenziali di questa Corte, con cui si è ritenuto possibile liquidare in via presuntiva ed automatica le spese generali in favore dell'appaltatore in caso di recesso dal contratto o, comunque in ipotesi in cui il contratto ha avuto esecuzione (Cass., sez. 1, 2 ottobre 2023, n. 27690; Cass., sez. 1, 11 settembre 2020, n. 18897; Cass., sez. 1, 10 luglio 2020, n. 14779).

Infatti, la società appaltatrice ha scelto di utilizzare lo strumento della risoluzione del contratto, ma non risulta si sia avvalsa delle clausole penali, ivi comprese quelle richiamate nel contratto e relative all'art. 25 del D.M. n. 145 del 2000.

Si legge, infatti, nella sentenza di appello che "il primo giudice non ha fatto riferimento ad alcuno degli istituti - diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa o termine essenziale – da cui discende la risoluzione di diritto del contratto e neppure ha fatto riferimento allo scioglimento del contratto ai sensi dell'art. 24 IV comma D.M. n. 145 del 2000".

Inoltre, si legge sempre nella sentenza di appello che "I capi di domanda dell'appaltatore, fondati su voci di danno dedotte in base al disposto del predetto art. 25 non possono quindi accogliersi, salvo quanto in seguito di dirà", senza alcun riferimento specifico alla volontà della società di avvalersi della clausola penale, manifestandosi anche un vizio di autosufficienza del ricorso sulla specifica questione.

Invero, per questa Corte, in tema di clausola penale, ove sia proposta domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, con contestuale richiesta di condanna della parte inadempiente al risarcimento dei danni, il risarcimento è subordinato alla prova dell'an e del quantum dei danni, non operando conseguentemente la limitazione quantitativa prevista dalla clausola penale contrattualmente pattuita, di cui la parte non inadempiente non si sia avvalsa, ai fini dell'accoglimento della domanda risarcitoria (Cass., sez. 2, 25 ottobre 2023, n. 29610).

Ciò nel senso che le parti possono, nell'ambito della loro autonomia contrattuale, convenire una penale in relazione ad entrambe le ipotesi, ritardo e inadempimento (Cass., n. 8813 del 2003). Tuttavia, la richiesta di applicazione di una penale per l'inadempimento non può considerarsi implicitamente contenuta nella domanda di risoluzione del contratto, né in quella di risarcimento del danno, stante l'indipendenza di queste domande (Cass., n. 10741 del 2008; Cass., n. 771 del 1997), potendo trovare applicazione tanto in ipotesi di domanda di risoluzione del contratto quanto in quella in cui venga proposta domanda di esecuzione coatta dello stesso (Cass., sez. 3, 12 settembre 2014, n. 19272; Cass., 24 aprile 2008, n. 10741).

8. Con il terzo motivo di impugnazione principale la ricorrente deduce la "violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c., per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".

La Corte d'appello avrebbe omesso "nell'ambito del potere discrezionale" di valutare le risultanze istruttorie decisive. Al contrario, dagli elementi istruttori e, segnatamente, dalla prova testimoniale, emergerebbe la realizzazione del cantiere, con collocamento di un bagno chimico, di un container e di una baracca in metallo.

8.1. Il motivo è inammissibile.

8.2. In primo luogo, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell'art. 2697 c.c. si configura soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass., sez. 6-3, 23 ottobre 2018, n. 26769).

8.3. In secondo luogo, in tema di ricorso per cassazione, la deduzione della violazione dell'art. 116 cod. proc. civ. è ammissibile ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento (Cass., sez. L, 19 giugno 2014, n. 13960).

Tra l'altro, nel quadro del principio, espresso nell'art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati (Cass., sez. 2, 8 maggio 2017, n. 11176).

8.4. Inoltre, la ricorrente principale chiede, in realtà, una nuova rivalutazione degli elementi istruttori, già adeguatamente esaminati e valutati dal giudice di merito, non consentita in questa sede (Cass., Sez. U., n. 8053 del 2014).

Costituisce orientamento consolidato di legittimità quello per cui l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé il vizio di cui all'n. 5 dell'art. 360 c.p.c., qualora il fatto storico (principale o secondario) sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché senza dar conto di tutte le risultanze probatorie.

È sufficiente, dunque, che il fatto sia stato esaminato senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all'esito dell'istruttoria come astrattamente rilevanti (Cass. n. 661 del 2017; Cass. n. 31452 del 2022; Cass., n. 28718 del 2022).

Nella specie, il giudice d'appello con motivazione adeguata ha evidenziato che, anche sulla scorta della prova testimoniale espletata, non emergevano le spese generali del cantiere ("a tal riguardo non possono soccorrere neppure le prove testimoniali: da essi invero emerge l'avvenuta recinzione dell'area del cantiere, il posizionamento al suo interno di alcuni attrezzi ed il controllo saltuario dell'area da parte di alcuni dipendenti, ma non consentono la puntuale e specifica individuazione delle spese a tal fine sostenute dall'odierna appellata").

9. Con il primo motivo di ricorso incidentale l'Azienda Usl deduce la "violazione e falsa applicazione dell'art. 1453, 1455 c.c., art. 24 del D.M. n. 145 del 2000, in relazione al motivo di cui al n. 3 del primo comma dell'art. 360 c.p.c.".

In realtà, sarebbe stata proprio la GECOP, con comunicazione del 23 ottobre 2007, ad invocare il meccanismo di cui all'art. 24 del D.M. n. 145 del 2000, che conduce però alla risoluzione del contratto di diritto e senza indennità. La società avrebbe dunque illegittimamente interrotto le prestazioni contrattuali alla data del 23 ottobre 2007 e dunque avrebbe rifiutato di dare esecuzione al contratto, nonostante in data 3 dicembre 2007 fosse intervenuta l'approvazione dalla regione Lazio della perizia di variante che rendeva efficace il contratto. Il rifiuto di GECOP di rendere le prestazioni configurerebbe un inadempimento del contraente che avrebbe dichiarato la risoluzione del contratto, privando di giuridica rilevanza la condotta della controparte Asl.

Vi sarebbe stato, in realtà, un recesso per mutuo dissenso ai sensi dell'art. 1372 c.c. e non una risoluzione per grave inadempimento ex art. 1453 c.c.

9.1. Il motivo è inammissibile, stante la sua novità, non risultando che la Azienda Usl abbia allegato e dedotto tale circostanza - relativa al recesso per mutuo dissenso - nel corso dei gradi di merito.

10. Tra l'altro, emerge dalla sentenza impugnata che, a fronte del grave inadempimento della Asl, che non ha consentito neppure di inizio dei lavori, a distanza di 2 anni dalla consegna del cantiere, la GECOP si è limitata a sollevare l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.

Si legge, infatti, nella motivazione della sentenza del giudice d'appello che "neppure è dirimente, al fine di escludere il grave inadempimento della Asl, la circostanza - dedotta dall'appellante (ASL) - per cui l'appaltatore si sarebbe sottratto al proprio obbligo di eseguire le opere, una volta intervenuta l'approvazione regionale della perizia di variante. Invero, dinanzi ai plurimi inadempimenti della Asl, nell'ottobre 2007 l'appaltatrice si è limitata ad opporre l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., insistendo poi per la risoluzione contrattuale".

La ricorrente incidentale chiede, allora, una nuova valutazione degli elementi istruttori, a fronte di un'adeguata e sufficiente motivazione da parte del giudice d'appello, non consentita in questa sede.

Vale a riguardo l'orientamento giurisprudenziale di legittimità per cui nei contratti con prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento in caso di inadempienze reciproche, il giudice di merito è tenuto a formulare un giudizio - incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato - di comparazione in merito al comportamento complessivo delle parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi ed all'oggettiva entità degli inadempimenti (tenuto conto non solo dell'elemento cronologico, ma anche e soprattutto degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della incidenza di queste sulla funzione economico-sociale del contratto), si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale (Cass., sez. 3, 9 giugno 2010, n. 13840; anche Cass., sez. 2, 28 dicembre 2023, n. 36295; Cass., sez. 3, 18 settembre 2015, n. 18320; Cass., sez. 3, 10 novembre 2003, n. 16822; Cass., sez. 2, 27 febbraio 1996, n. 1537; Cass., sez. 2, 10 giugno 1991, n. 6576).

11. Con il secondo motivo di ricorso incidentale l'Azienda Usl lamenta la "violazione e falsa applicazione di norme di diritto di cui all'art. 1455 e art. 25 del D.M. n. 145 del 2000, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.".

La Corte d'appello, pur non riconoscendo i danni, ha liquidato, in via equitativa, il mancato utile in favore dell'appaltatore. In realtà, una volta accertata la legittimità delle sospensioni ex art. 25 del D.M. n. 145 del 2000, la fattispecie non poteva applicarsi il meccanismo della liquidazione, neppure in ordine al mancato guadagno in via equitativa.

11.1. Il motivo è infondato.

11.1. L'art. 344 della L. 20 marzo 1865, n. 2248 stabiliva che "occorrendo in corso di esecuzione un aumento od una diminuzione di opere, l'appaltatore è obbligato ad assoggettarvisi fino a concorrenza del quinto del prezzo di appalto alle stesse condizioni del contratto. Al di là di questo limite egli ha diritto alla risoluzione del contratto".

L'art. 345 della L. n. 2248 del 1865 prevedeva, poi, che "è facoltativo all'amministrazione di risolvere in qualunque tempo il contratto, mediante il pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell'importo delle opere non eseguite".

12. Questa Corte, ha applicato tale norma, per analogia, anche all'ipotesi della risoluzione del contratto di appalto per fatto imputabile a condotta della stazione appaltante.

Si è affermato che, in tema di appalto di opere pubbliche, la detrazione per il cosiddetto quinto d'obbligo dell'appaltatore - in relazione alla circostanza che l'art. 344 della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, prevedeva l'obbligo dell'appaltatore di eseguire opere in aumento o in diminuzione rispetto a quelle pattuite fino ad un quinto del prezzo d'appalto - non può trovare applicazione, in sede di liquidazione del danno con il criterio del dieci per cento sulle opere non eseguite, ai sensi dell'art. 345 della legge citata, quando il contratto di appalto sia stato risolto per inadempimento della stazione appaltante (Cass., sez. 1, 18 settembre 2012, n. 15621).

Del resto, l'art. 109 del D.Lgs. n. 50 del 2016, prevede, al primo comma (Recesso) che "fermo restando quanto previsto dagli artt. 88, comma 4-ter e 92, comma 4, del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, la stazione appaltante può recedere dal contratto in qualunque momento previo il pagamento di lavori eseguiti o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture (...) oltre al decimo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite".

Tale disposizione ha sostituito il previgente art. 134 del D.Lgs. n. 163 del 2006, che a sua volta aveva sostituito, riprendendone sostanzialmente il contenuto, l'art. 345 della L. n. 2248 del 1865, all. F e ed art. 122 del D.P.R. n. 554 del 1999.

Da ultimo, l'art. 123 del D.Lgs. n. 36 del 2023 sancisce che "la stazione appaltante può recedere dal contratto in qualunque momento purché tenga indenne l'appaltatore mediante il pagamento dei lavori eseguiti o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture eseguiti (...) oltre al decimo dell'importo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite, calcolato secondo quanto previsto nell'allegato II.14".

Del resto, il criterio indennitario stabilito per il recesso della PA viene tradizionalmente applicato analogicamente dalla giurisprudenza anche a fattispecie diverse da recesso - che è un atto legittimo - verificantisi a titolo di responsabilità sempre nell'ambito dell'appalto d'opera.

Si è, infatti, ritenuto che, in tema di appalto di opere pubbliche, l'art. 345 della L. 20 marzo 1865 n. 2248 all. F, ove stabilisce la percentuale del residuo corrispettivo dovuta all'impresa appaltatrice per il caso di esercizio da parte della committente della facoltà di recesso, regola i crediti pecuniari derivanti da detto atto legittimo dell'Amministrazione, e, pertanto, nella diversa ipotesi della responsabilità risarcitoria dell'Amministrazione medesima per inadempimento, può essere utilizzato quale parametro per la determinazione del lucro cessante dell'appaltatore, ma non incide sulla natura di credito di valore del corrispondente diritto del danneggiato, implicante la computabilità, in sede di liquidazione, del sopravvenuto deprezzamento della moneta (Cass., 1 febbraio 1995, n. 1114).

12. Stante la reciproca soccombenza le spese del giudizio di legittimità vanno compensate per intero tra le parti.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale.

Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 1, se dovuto.


Conclusione

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 marzo 2024.

Depositata in Cancelleria il 3 aprile 2024.


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AZIENDA: Il complesso della struttura organizzata dal datore di lavoro pubblico o privato;
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COMPLETAMENTO: L'esecuzione delle lavorazioni mancanti a rendere funzionale un'opera iniziata ma non ultimata; 
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CONTRAENTE: il soggetto, obbligato principale, che stipula con il Garante la garanzia fideiussoria;
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DECRETO: il presente provvedimento;
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LAVORI: Ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. nn) del Codice: di cui all'allegato I, le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro, manutenzione di opere;
LEGGE: la legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni ed integrazioni;
LEGGE: la legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni ed integrazioni;
OPERA: Ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. pp) del Codice: il risultato di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica. Le opere comprendono sia quelle che sono il risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio civile...
OPERA: Ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. pp) del Codice: il risultato di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica. Le opere comprendono sia quelle che sono il risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio civile...
OPERE: le opere da costruire o costruite oggetto dell'appalto e descritte nella Scheda Tecnica;
OPERE: le opere da costruire o costruite oggetto dell'appalto e descritte nella Scheda Tecnica;
OPERE: le opere da costruire o costruite oggetto dell'appalto e descritte nella Scheda Tecnica;
OPERE: le opere da costruire o costruite oggetto dell'appalto e descritte nella Scheda Tecnica;
OPERE: le opere da costruire o costruite oggetto dell'appalto e descritte nella Scheda Tecnica;
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OPERE: le opere da costruire o costruite oggetto dell'appalto e descritte nella Scheda Tecnica;
OPERE: le opere da costruire o costruite oggetto dell'appalto e descritte nella Scheda Tecnica;
OPERE: le opere da costruire o costruite oggetto dell'appalto e descritte nella Scheda Tecnica;
OPERE: le opere da costruire o costruite oggetto dell'appalto e descritte nella Scheda Tecnica;
MANUTENZIONE: La combinazione di tutte le azioni tecniche, specialistiche ed amministrative, incluse le azioni di supervisione, volte a mantenere o a riportare un'opera o un impianto nella condizione di svolgere la funzione prevista dal provvedimento di approvazi...
MANUTENZIONE: La combinazione di tutte le azioni tecniche, specialistiche ed amministrative, incluse le azioni di supervisione, volte a mantenere o a riportare un'opera o un impianto nella condizione di svolgere la funzione prevista dal provvedimento di approvazi...
REGOLAMENTO: il D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554;
STAZIONE APPALTANTE: Ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. o) del Codice: le amministrazioni aggiudicatrici di cui alla lettera a) gli enti aggiudicatori di cui alla lettera e), i soggetti aggiudicatori di cui alla lettera f) e gli altri soggetti aggiudicatori di cui alla ...
STAZIONE APPALTANTE: Ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. o) del Codice: le amministrazioni aggiudicatrici di cui alla lettera a) gli enti aggiudicatori di cui alla lettera e), i soggetti aggiudicatori di cui alla lettera f) e gli altri soggetti aggiudicatori di cui alla ...
STAZIONE APPALTANTE: Ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. o) del Codice: le amministrazioni aggiudicatrici di cui alla lettera a) gli enti aggiudicatori di cui alla lettera e), i soggetti aggiudicatori di cui alla lettera f) e gli altri soggetti aggiudicatori di cui alla ...
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