AFFIDAMENTO IN HOUSE - DANNO ALLA CONCORRENZA - NON SUSSISTE "IN RE IPSA"
Al principale rilievo che il giudice di prime cure muove all’attrice per non aver dimostrato l’elemento psicologico della colpa grave a carico dell’odierno appellato, questa replica con la mancanza di rispetto, da parte del Dirigente del servizio, del perimetro normativo posto a disciplina degli affidamenti de quibus. Tanto avrebbe determinato il danno alla concorrenza, per definire il quale fa appello alla giurisprudenza di questa Corte ed alle pronunce dell’AVCP che, peraltro, lo stesso giudice di prime cure dichiara di condividere anche se per motivazioni differenti, in particolare per l’affermazione che il danno alla concorrenza non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, dovendosi provare, da parte dell’attore, che la deviazione dai parametri di una corretta azione amministrativa abbia comportato un effettivo danno patrimoniale all’Ente
pubblico (ex multis, tra le recenti Sez. III n. 148 del 2018 e 228 del 2016; Sez. II n. 1081 del 2015), “provato attraverso la quantificazione della somma che l’Amministrazione avrebbe potuto risparmiare ove fosse stata regolarmente espletata la prevista procedura di gara” (App. Sicilia n. 147 del 2018).
Il danno alla concorrenza, infatti – rimandando alle copiose pronunce in merito (ex multis: Sez. I, 20 settembre 2018, n. 352; Sez. II n. 10 luglio 2018, n. 348) – si configura, in estrema sintesi, quando il mancato ricorso alle regole dell’evidenza pubblica determina una lesione al patrimonio pubblico
configurata “quale percentuale di mancato ribasso, ingiustamente perduta, in misura percentuale, su ogni singolo (maggiore) pagamento che viene
effettuato”.
Ritiene, questo Collegio, di dover condividere quanto statuito dal giudice di prime cure in merito all’incapacità del ricorso alla tabella di cui alla Relazione dell’AVCP 2012 di costituire parametro idoneo a dimostrare la sussistenza del danno lamentato, proprio per i criteri posti come base di riferimento che peccano di genericità, limitazione temporale e, al contrario, ampiezza di riferimenti geografici.
In una parola, i servizi “con importo a base d’asta compreso tra 40.000 e 150.000 euro” non presentano un ragionevole margine di comparabilità con quelli in oggetto, così come l’ampiezza dell’intero territorio preso a riferimento, quale l’intero Nord-est e, ancor meno, la circoscrizione del periodo di tempo della Relazione al solo anno 2012.
È appena il caso di ricordare che il danno alla concorrenza – che, sicuramente scaturisce dall’omesso ricorso alle regole dell’evidenza pubblica, come la giurisprudenza di questa Corte ha più volte ribadito – va’, comunque, dimostrato.
E che detta violazione di legge abbia determinato una maggiore spendita di denaro pubblico, potrà essere provato, sì, con ogni idoneo mezzo, ma pur sempre di comparazione con i prezzi o con i ribassi conseguiti ad esito di gara per lavori o servizi dello stesso genere di quello in contestazione.
In tal senso, la granitica giurisprudenza di questa Corte che sta a significare il bisogno di maggior aderenza possibile dei criteri presi a riferimento, per misurare la configurazione del danno erariale, alla concreta situazione all’esame.
Circostanza non rinvenuta in fattispecie per le considerazioni di cui avanti, il che lascia sussistere la configurazione di un danno alla concorrenza come in re ipsa, ovvero derivante dall’asserita mera violazione della normativa sull’evidenza pubblica.
La giurisprudenza – peraltro richiamata dallo stesso appellante – è tranchant in termini di obbligo di prova di deviazione dai parametri di una corretta azione amministrativa.
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